In questo inizio del nuovo decennio dedicato alle donne, mi piace dare spazio in questo blog ad alcune figure di donne che con il loro impegno e con tanta testardaggine,  contribuiscono ad un mondo migliore. Lo farò ogni tanto e in modo semplice, ma con chiaro segno di rispetto verso chi sta dedicando la propria vita al raggiungimento di obiettivi importanti per tutti.

 

Il vero cognome di Wangari è Muta Mathai  ma lei, dopo il divorzio dal marito, il deputato keniota Mwangi Mathai che non ha retto all’uragano Wangari e che le ha imposto di usare un altro cognome , lei  ha semplicemente aggiunto al cognome una A ed ha chiuso la questione in quattro e quattr’otto. Perché Wangari è una donna estremamente determinata ed ha chiari obiettivi da perseguire. Non a caso uno dei suoi  libri si intitola  “Solo il vento mi piegherà” e in esso sostiene che “Un albero spinge le radici nel profondo del terreno e tuttavia svetta alto nel cielo. Ci dice che per poter ambire a qualcosa dobbiamo essere ben piantati per terra e che, indipendentemente da quanto in alto arriviamo, è sempre dalle radici che attingiamo il nostro sostentamento.” .

Nata nel 1940 in una comunità poligamica di etnia kikuyu stanziata in una zona rurale del Kenya, vive un’infanzia spensierata (“Ora so di essere stata cresciuta in un ambiente che non creava paure o incertezze. C’erano invece molte ragioni per sognare, per essere creativi e usare l’immaginazione”) e ben presto si sposa e diviene madre di tre figli. Consegue nel Kansas una laurea in biologia grazie a una borsa di studio promossa da John Fitzgerald Kennedy, un dottorato in veterinaria svolto tra l’università di Nairobi e quella di Monaco ed effettua esperienze di docenza universitaria in Kenya e un periodo di impegno politico presso il Ministero dell’Ambiente del proprio Paese. Nel frattempo viene arrestata e vessata dai vari governi del suo Paese che non riescono a tenerle testa, ma lei resiste a tutte le persecuzioni e tira dritta per il suo progetto: piantare alberi.

Sì, piantare alberi: un’idea che ronza in testa a Wangari mentre guarda le donne del suo Paese piegate dal patriarcato secolare e dal lavoro nei campi. Le colture intensive e l’abbattimento degli alberi per far posto alle piantagioni di caffè, costringevano i poveri alla fame e alla sete per via dell’inquinamento da fertilizzanti e le donne a camminare per ore in cerca di legna per il fuoco. Lavorare nelle spianate di caffè significava racimolare solo le briciole che i potenti industriali lasciavano ai contadini. Così Wangari lascia la carriera universitaria e si dedica ad un sogno, il “Green Belt Movement”: inizialmente coinvolge le donne delle zone rurali del Kenya invitandole a semplici  mansioni di giardinaggio e alla creazione di piccoli vivai per le abitazioni delle famiglie abbienti. In realtà, però, il progetto comincia a decollare e Maathai, investe tutte le energie per trasformare il larvale proposito originario in un’azione concreta, applicando le proprie competenze biologiche sul territorio keniota per obiettivi ecologisti: piantare degli alberelli  per combattere la desertificazione, stimolare la biodiversità alternando specie diverse di piante, valorizzare le zone verdi già esistenti. Amando gli alberi come se fossero esseri umani – fermi nella memoria come miti dell’infanzia e della terra natia ugualmente incontaminate – Wangari Maathai e il Green Belt Movement cominciano ad estendere il proprio campo di azione. Considerata la massiccia presenza femminile all’interno dell’organizzazione, collabora con il National Council of Women of Kenya, attraverso il quale si cerca di difendere i diritti delle donne, specie delle donne sole, vedove o divorziate. Il Green Belt Movement conquista consensi in tutto il Paese anche se per il governo in carica negli anni ’90 le sue adepte sono “solo un pugno di divorziate”. Wangari se ne frega degli appellativi e lotta con le sue donne contro la corruzione del potere. In particolare ostacolano  la costruzione di un complesso edilizio che avrebbe alterato la fisionomia di un grande parco pubblico.  Il marito a quel punto dichiara di essere diventato iperteso a causa della moglie che non riesce più a controllare. Lei nei suoi libri parla sempre bene e con dolcezza del marito e ad un certo punto dice: “A volte mi domando come sarei diventata se Mwangi non mi avesse lasciata. Chissà se avrei seguito lo stesso cammino. In un certo qual modo, il suo abbandono mi permise di imboccare la strada che poi ho percorso. Se lui fosse rimasto, forse le cose sarebbero andate molto diversamente. La via che avrei seguito sarebbe stata la nostra, ma non la mia”.

L’uragano  Wangari va avanti e, principalmente con le sue donne,  pianta 40 milioni di alberi di acacie nelle terre comunitarie dell’Africa centrale, contribuendo così a realizzare il più grande argine alla deforestazione e all’erosione del suolo che sia mai stato realizzato. “I deserti avanzano da nord a sud e la foresta del Congo è l’unico baluardo alla desertificazione del continente”, spiega Wangari. “Senza quel polmone verde avremo un cambio climatico radicale e pericoloso in tutto il pianeta”. Piantando acacie, questa bella signora ,che contagia il mondo con le sue idee, ha vinto nel 2004 il Nobel per la Pace e adesso rappresenta il suo Paese ai vertici internazionali sul riscaldamento globale.

C’è voluta la tenacia di una vita, ma alla fine Wangari ce l’ha fatta, e piantando acacie che, a differenza delle commerciali piantagioni di conifere volute dall’industria coloniale del legname e che portano terra nei fiumi sino a prosciugarli, rendono la terra solida e forte. Più che una rivoluzione, la banalità del bene.

“In tutte le analisi dei problemi dell’Africa, c’è una risorsa naturale

 che spesso non viene apprezzata: gli africani stessi.

 – Wangari Maathai