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Anche in questa estate, con gli amici del mare (che non sono solo del mare) abbiamo continuato a scambiarci dei libri. Complice il tempo libero, nei mesi estivi si legge di più e così, nel ristretto “circolo beach dei lettori”, come lo chiamo io, quando capita un testo interessante , lo si passa a chi ama leggere e poi il libro va in discussione. A volte queste sono accanite, accolgono pareri diversi e perdurano per settimane, tra un tuffo e una spalmata di solare. E’ una cosa carina e anche positiva per gli sviluppi che la conversazione-recensione può prendere, per la difesa a oltranza di questo o quello scrittore, per le riflessioni, anche argute, che si originano.

E’ importante che il  libro sia cartaceo, un e-book non puoi prestarlo, solo citarlo e i libri kindle che ho letto negli scorsi mesi li ho potuti solo consigliare o meno. Limiti del virtuale.

sdraiati

Il libro che in questa stagione ha scatenato una specie di putiferio nel mio gruppo è stato “Gli sdraiati”, di Michele Serra. Sono costretta a  fare spoiler e inizio dicendo che gli sdraiati sono i nostri adolescenti, nativi digitali. Nel racconto-saggio-monologo interiore di Serra sta l’amarezza di un padre che cerca disperatamente un contatto con il figlio diciannovenne e non riesce ad averlo. Questo nel primo impatto di lettura perché se scavi  può uscir fuori che gli sdraiati sono i padri, generazione anni cinquanta-sessanta senza un punto di partenza e di arrivo sicuro. Padri rimasti a metà strada tra il vecchio mondo e il nuovo in cui non sono ancora giunti e forse non giungeranno mai. La nostra generazione, afferma lo psicoanalista Luigi Zoja , soffre ancora nell’individuare la giusta figura paterna, dopo aver odiato e rifiutato quella autoritaria e patriarcale del passato e aver dileggiato quella amorfa e  senza spina dorsale, del tipo sempre  muto davanti a un televisore. I padri di oggi si sono trovati, così,  a essere padri senza un addestramento culturale. Zoja afferma che gli uomini, da almeno tre decenni, hanno rifiutato questo addestramento e si è proceduto nel deserto della figura paterna.

Tralascio  le discussioni nel gruppo di lettura quando ho timidamente portato avanti questa tesi: gli uomini stavano per sbranarmi! Il padre di Michele Serra è indifeso, confuso, con sensi di colpa,  anaffettivo. Dice peste e corna del figlio, lo cerca coi suoi non so – non capisco e il ragazzo si sottrae. Il padre è un tappeto, come il kilim che sta all’ingresso della casa; il figlio lo calpesta con le sue scarpe dure, lo stropiccia, lo ignora, gli sta lontano. Teme il padre, ma non vuole la lotta: non accetta il passaggio del testimone.  Il padre, peraltro,  non sa cosa ha da passargli, forse dei vasi da innaffiare. Persino il tatuatore del figlio gli suggerisce di stare vicino al ragazzo e di parlargli. Così questo padre lancia un invito al ragazzo: scalare una montagna. E’ anche disposto a pagarlo  per quella impresa insieme. Alla fine il ragazzo, mosso dalla pietà o dallo sfinimento, accetta e i due partono per il Colle; il padre non è certo di farcela, gli anni passano e le sue forze diminuiscono, e dubita fortemente del figlio, impreparato fisicamente e con un abbigliamento sbagliato per l’alta montagna.  Si arriva al finale del libro. Il padre, nella faticosa salita, si distrae e perde di vista il figlio, pensa sia rimasto indietro, si sia perso, e lo chiama disperatamente. Il figlio, invece, è avanti, lo ha superato, è in cima. Ora il padre può invecchiare.

Ho volutamente, e brutalmente, sintetizzato,  Michele Serra mi perdonerà,  e tralasciato le parti più belle del libro per invitarvi alla lettura e torno repentinamente al gruppo beach di amici: tutti abbiamo concordato sulla buona scrittura di Serra, sulla tematica non banale del libro, seppur vecchia di secoli, sulle riflessioni del monologo, spesso ermetiche, complesse, tristi, ironiche, divertenti,  che fanno pensare. Il gruppo di lettura  si è, invece, spaccato  nel finale del libro. In verità sono rimasta quasi sola a dire che il finale era quello giusto e mi era piaciuto che il ragazzo ce l’avesse fatta a superare il padre, che si era “alzato”. Deve essere così: le generazioni future devono essere sempre migliori delle precedenti, altrimenti non c’è crescita, altrimenti è la fine. I miei amici sostenevano che  è così, che siamo alla frutta e che  lo scrittore aveva scelto un finale consolatorio, che avrebbe, invece, dovuto far morire uno dei due protagonisti per lanciare un forte segnale a questa generazione di sdraiati nullafacenti che sono i giovani di oggi. No, mi spiace, non concordo, non posso concordare: sono un’insegnante, vivo col futuro  e mai sosterrò che questi ragazzi, che faticosamente stanno diventando grandi, con traballanti figure paterne e istituzionali, siano dei falliti in partenza. Se lo fossero, i veri  e unici falliti saremmo tutti noi che li abbiamo accompagnati sin qui.